nome uguale ad un marchio registrato

Si può usare il proprio nome come marchio se questo è uguale ad un marchio registrato di una nota impresa?

L’uso del proprio nome corrispondente ad un precedente marchio registrato è consentito purchè conforme ai principi di correttezza professionale e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva (Trib. Catania, 12 gennaio 2017,  n.566/17).

La suddetta massima è stata pronunciata dalla sezione specializzata in materia di imprese del Tribunale di Catania in una causa introdotta dalla Roberto Cavalli S.p.A. per l’accertamento della nullità del marchio italiano “Luciana Cavalli”.

I marchi patronimici

Come regola generale, il titolare di un marchio registrato può impedire a chiunque di utilizzare un segno identico o simile per distinguere prodotti o servizi identici o affini. Ma ciò vale anche per i marchi che coincidono con i nomi di persona? Può essere impedito ad una persona di usare il proprio nome nell’attività d’impresa?

L’art. 21, comma 1, lett. f) c.p.i. prevede una limitazione ai diritti di esclusiva del titolare di un marchio patronimico. Egli non può vietare ad un soggetto terzo che porti un nome corrispondente o simile a quello contenuto nel marchio registrato di usarlo per descrivere la propria attività, anche economica.

Il legislatore però ha voluto evitare che questa possibilità venisse sfruttata dal titolare del nome per agganciarsi alla notorietà di un marchio altrui oppure per creare una situazione di confusione per i consumatori. A tal fine, ha precisato che l’uso del nome può ritenersi consentito soltanto a condizione che “sia conforme ai principi della correttezza professionale“.

Il limite della correttezza professionale

La Corte di Giustizia ha precisato che il requisito della “correttezza professionale” o, più precisamente della “lealtà nei confronti dei legittimi interessi del titolare del marchio”, non possa ritenersi soddisfatto quando l’uso del marchio :

  1. avvenga in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale tra i terzi ed il titolare del marchio;
  2. pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà;
  3. causi discredito o denigrazione di tale marchio;
  4. il terzo presenti il suo prodotto come un’imitazione del prodotto recante il marchio di cui egli è titolare” (Corte Giust. C-228/03, 17 marzo 2005, caso Gillette).

Nel caso Gerolsteiner Brunnen (Corte di Giust. C-100/02 7 gennaio 2004), la Corte di Giustizia aveva già chiarito che il requisito della conformità agli “usi consueti di lealtà” rappresenta l’unico criterio interpretativo per valutare la liceità dell’uso del proprio nome uguale ad un marchio registrato.

Per adeguarsi a questa sentenza, il legislatore italiano, con la riforma di cui al D.lgs. 13 agosto 2010, n. 131, ha modificato l’art. 21, comma 1, c.p.i. ed eliminato dal testo la frase “e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva”, che precedentemente seguiva la frase “purchè l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale[1].

Secondo quanto precisato dalla Corte di Cassazione, ciò non significa che non sussista più il divieto di usare in funzione di marchio il proprio nome uguale ad un marchio registrato precedentemente da altri (Cass., 14 marzo 2014, n. 6021). Trattavasi infatti di una specifica ipotesi, in precedenza espressamente prevista e non a caso preceduta da “quindi”, di violazione dei principi di correttezza professionale. Pertanto, la mancanza della sua espressa previsione nel nuovo testo nulla toglie all’estensione della norma, che continua a comprendere anche detta ipotesi.

Conclusioni

Per rispondere alla domanda iniziale, l’uso del proprio nome deve limitarsi ad una funzione descrittiva e non può svolgere una funzione distintiva del prodotto o del servizio fornito. Ad esempio, nel caso in cui l’uso del nome comporti l’apposizione dello stesso sul prodotto o sulla confezione, affinché possa essere ritenenuto conforme ai principi di correttezza professionale dovrà essere scritto in caratteri piccoli, accanto all’indirizzo dell’azienda, preceduto dalla parola “ditta” o simili, etc.[2]

[1] Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto indutriale, Milano, 2012, VII edizione, p. 266.

[2] Idem, p. 267.

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